L’intera società liberale si basa sul rischio d’impresa. E non tutti sanno fare del buon risk management, non tutti sanno gestire il rischio. Ci sono tanti piccoli commercianti che si mettono in proprio alla viva il parroco e si rovinano. Alcuni peccano d’ingenuità: non si fanno consigliare dal loro commercialista che dice loro di non aprire, che il gioco non vale la candela, che sono più i contro che i pro. Il problema è che molti commercianti si inorgogliscono per l’articolo sul giornale e la foto che li ritrae col sindaco quando aprono, ma poi vengono lasciati soli dall’intera comunità quando chiudono i battenti. Ma la parola d’ordine per molti è rischiare perché come dicono a Livorno “chi non risica non rosica”. Il sogno di molti è mettersi in proprio, ma poi c’è l’ordinaria fatica quotidiana: le tasse, i fornitori, i contributi da pagare, i dipendenti, l’affitto da pagare, la luce, il gas, etc etc. L’intera società è basata sull’amoralità del rischio. Senza rischio non c’è benessere, non c’è ricchezza. Senza rischio non c’è vera libertà. Oppure la libertà ha un prezzo alto da pagare: il rischio. Sembra che il merito esclusivo sia quello di ridurre, calcolare, ponderare il rischio. Che chi fa il passo più lungo della gamba o comunque un passo falso fallisce e finisce coi debiti per tutta la vita. Accidenti al rischio che ti rovina! Che poi non sempre il duro lavoro ti ripaga! E il rischio, piccolo o grande, ti può aprire le porte della ricchezza e ti può dare i privilegi. Di nuovo accidenti al rischio! Molti giustificano il privilegio con la frase: “io ho messo il capitale per avviare l’attività. Io rischio ogni giorno il fallimento” oppure “mio padre è partito dal niente e ha rischiato, chiedendo i mutui, facendo le firme in banca”. E ci sono alcuni commercianti e imprenditori che guardano gli altri dall’alto in basso perché loro hanno avuto un’idea, hanno rischiato, hanno “svoltato”. Basta leggere “Il maestro di Vigevano” di Mastronardi: c’è tutto in quel romanzo. Insomma chi rischia ha capito tutto dalla vita. Chi rischia è furbo, è intelligente. E poi se lo hanno fatto altri e a loro è andata bene, perché non posso farlo io? E se c’è riuscito lui perché non posso riuscirci io? Cosa ha quel tale che io non ho? Ma non sempre il successo è correlato con le capacità. Le variabili in gioco sono tante. La strada è in salita. Il boom economico è finito. Ora al suo posto c’è la crisi. E poi ci sono anche imprenditori che lo fanno di mestiere di fallire e poi riaprire l’attività per gabbare il fisco e non pagare le tasse! D’altronde se è vero che l’assunzione del rischio o meno crea ingiustizie, qual è l’alternativa, visto che il comunismo russo ha fallito? Inoltre il collettivismo e l’egualitarismo si imbattono sempre nella cosiddetta tragedia dei beni comuni, detto in parole povere, quando una cosa è di tutti è soprattutto di nessuno. Comunque un imprenditore onesto ha la spada di Damocle del rischio di impresa. Se un imprenditore onesto fallisce finisce per essere povero e morto professionalmente, economicamente, socialmente. Portare i libri in tribunale, licenziare i dipendenti, dire ai creditori che non ci sono più soldi, farsi portare via i beni dalle banche, essere protestato è un vero e proprio dramma. Un imprenditore onesto sente gravare su di sé il peso delle persone a cui dà lavoro. Ci sono anche imprenditori onesti, coscienziosi, responsabili. Non bisogna credere il contrario. Un imprenditore però se fallisce non muore fisicamente e se ha idee suicide, ci sono gli antidepressivi. Ma ricordiamoci anche che è una grande tragedia quando un operaio muore, finendo sotto una pressa, cadendo da un altoforno, etc etc. Un imprenditore fallito può sempre trovare un altro lavoro. Ma la famiglia dell’operaio morto? Cosa è allora retorica? È retorica quella delle cosiddette morti bianche, ossia dei morti sul lavoro (circa 1000 ogni anno in in Italia), o quella del rischio d’impresa?