Ci stiamo avvicinando sempre più alla fine di questa escursione all’interno degli oscuri meandri dell’erudizione mista. Essendo questo articolo il penultimo, mi sono collegata al precedente con una piccola similitudine tra John Keats e Claude Monet e spero di aver reso il più scibili possibili le informazioni variopinte di cui vi ho inondato in questo quarto pezzetto di puzzle multiartistico. Senza troppi indugi, tra poeti e pittori, continuiamo la nostra piccola gita comodamente seduti a casa o scomodamente in piedi in qualche mezzo di trasporto.
P.S. ecco, come al solito, le tre parti precedenti, sempre nel caso che voi siate qui a leggere grazie/a causa dei vostri amici che vi hanno reindirizzato a queste piccole novelle interessanti! [Parte I, Parte II, Parte III].
E dunque buona lettura e che sia la sana curiosità la vostra fedele amica!
Come in Keats la tela della propria anima deve divenire un flusso di emozioni quasi incontrollate, così in Monet, quasi un secolo dopo, la tela diviene mezzo di espressione totale dei propri sentimenti e percezioni. Claude Monet (1840-1926), soprannominato ‘pittore dell’impossibile’, si concentrò sullo studio dell’arte pittorica en plein air ed Impressionista; l’epoca in cui egli produce, studia e lavora non è molto diversa da quella romantica, poiché lo stile artistico precedente era permeato e sopravvissuto anche fino alla fine dell’800.
Come già detto per Beethoven, Hegel ed i poeti della seconda generazione ottocentesca, così anche per Monet la realtà e tutto quel che lo circonda devono essere interpretati, ovviamente con i mezzi che l’epoca mette a disposizione, e soprattutto devono essere divulgate le idee ed i sentimenti che derivano dalla visione del mondo.
Il soggetto è sempre un pretesto, tanto che siano i covoni di fieno, le ninfee o la cattedrale di Rouen; ciò che conta infatti è la percezione che di essi si ha, il mutare rapidissimo del loro aspetto attraverso le forze naturali e le condizioni atmosferiche del momento. Ma come cogliere quell’attimo? Come imprigionarlo su una tela bianca prima che svanisca? Impossibile, forse. Per Monet no. Egli crea una tecnica ‘nuova’ per catturare attimi fuggevoli tramite la pittura. La storia dell’arte Simona Bartolena commenta il lavoro generale di Monet così:
“Quasi cieco per la cataratta, Monet vede sempre meno la realtà che lo circonda: la può però ancora percepire ed è proprio nella percezione che consiste l’ultima fase della sua ricerca. Egli attua un deciso superamento dell’Impressionismo verso un ripensamento introspettivo, soggettivo e visionario della realtà.”
Difatti quella dell’ultimo Monet è una ricerca poetica più simile alle pagine di Marcel Proust che a quelle di Emile Zola o Stéphane Mallarmé. Difatti ne “Lo stagno delle ninfee” l’Impressionismo puro degli anni sessanta è ormai lontano: Monet lavora sul dipinto con pennellate dove la materia si scioglie e si libera nel colore, i fiori perdono consistenza tattile e visiva e sembrano quasi vivere in una luce vibrante e plasmata. Ogni riferimento spaziale è perduto: il cielo si mescola con l’acqua e le ninfee stesse con il loro riflesso; la superficie del lago rimane cangiante mentre i colori e le sfumature dei soggetti si rincorrono incessantemente come lo scorrere del tempo che colpisce ogni essere esistente al mondo. I fiori rappresentano un ripensamento introspettivo cui Monet collega anche una riflessione sulle continue metamorfosi della natura e l’incessante fluire dell’esistenza. L’impressionismo, sia in pittura che in poesia, è un modo di cogliere la realtà nell’arte mediante, non la riflessione e la ragione, ma singole, rapide e staccate impressioni che l’anima avverte in modo immediato (e spesso inconscio) attraverso la percezione dei sensi.
L’impressionismo di Pascoli si avvicina tanto a Monet quanto a musicisti come Debussy. Pascoli invero, non solo fa parte del movimento sopra citato, bensì anche dei cosiddetti “Decadentismo” e “Simbolismo”; con il primo si designano più fenomeni, ovvero una corrente culturale che si sviluppa nell’Europa del secondo ottocento che racchiude in sé una serie di atteggiamenti estetici e letterari sviluppatisi in Francia intorno agli anni sessanta dell’Ottocento. Dal movimento tumultuoso e disordinato dei ‘décadents’ francesi nasce il Simbolismo. Nel 1886 viene pubblicata la rivista “Le Simboliste”; Charles Baudelaire venne riconosciuto come il maestro simbolista per eccellenza, e più tardi anche Verlaine, Rimbaud, Mallarmè furono considerati grandi esponenti di questa corrente, anzi ne rappresentarono l’espressione più alta. Per il poeta simbolista la realtà è mistero e la natura si presenta come una foresta di simboli che al poeta stesso spetta di interpretare e svelare con un atto di intuizione-espressione. A tale scopo egli rifiuta la tradizionale logicità del linguaggio e ricorre a tecniche come il simbolo, l’allegoria, l’analogia, la metafora ricercata, la sinestesia.
"E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera."
- Il Lampo, 1894 -
Per i simbolisti la realtà non è quella della scienza, della ragione o dell’esperienza, è qualcosa di più profondo e misterioso che può essere inteso soltanto dalla poesia (per questo motivo il collegamento con i Romantici è molto semplice e fattibile). La poesia è la rivelazione dell’essenza misteriosa del reale: essa cerca le affinità segrete nelle apparenze sensibili, per cogliere idee primordiali. La natura è rappresentata come una foresta di segni tra loro corrispondenti; il mondo è un insieme di immagini che ci parlano in un misterioso linguaggio: né la scienza né la ragione possono comprendere ciò.
Soprattutto nei primi anni del nuovo secolo questa tendenza fu veramente conosciuta nella pienezza delle sue affermazioni teoriche e delle sue proposte di novità espressiva, influendo così in misura determinante sui futuristi e sui poeti ermetici. Pascoli infatti in molte delle sue poesie, in particolare della raccolta ‘Myricae’ e ne ‘I canti di Castelvecchio’, usa ancora forme classiche come il sonetto, gli endecasillabi o le terzine, e dietro questa ‘classicità’, si cela la prima rottura con la tradizione. Anch’egli tenta di catturare i momenti fuggevoli della vita quotidiana come gli artisti a lui contemporanei ma aggiunge nelle sue poesie, dei tratti di malinconia e perdita delle certezze causate da drammi familiari e da una situazione sociale italiana deludente e preoccupante. Secondo un’interpretazione critica di Emilio Cecchi:
«Giovanni Pascoli rappresenta l’inquietudine della coscienza italiana fra una sensualità non vinta ed un’interiorità non raggiunta ancora. Ma quando si riesce a sentirla veramente così inquieta, eppure così una, allora siamo forzati a riconoscere ch’essa è forse la poesia più ricca di futuro che la nostra letteratura contemporanea possegga; si sente ch’è la più vicina a quella poesia di vita tutta interiore che ha da nascere, se questa nostra letteratura vuole ancora portare gioia di cose nuove.»